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    UNSIC: Ma davvero conviene “fa’ l’americano”? - UNSIC

    Tra le molteplici uscite del presidente statunitense Donald Trump, collegate principalmente al “balletto dei dazi”, c’è l’invito agli imprenditori di tutto il mondo ad investire negli Usa, anche spostando la propria azienda negli States per evitare balzelli.

    In realtà il messaggio è rivolto anche alle stesse multinazionali americane che, com’è noto, hanno stabilimenti produttivi soprattutto in Asia per pagare molto meno il costo del lavoro. Non a caso la classifica dei Paesi più colpiti dai dazi vede proprio le nazioni asiatiche in testa, dove c’è tanta esportazione di prodotti a fronte di una quasi totalmente assente importazione dagli States.

    Non mancano, però, imprenditori europei che sono già presenti, con le proprie aziende, negli Usa e che potrebbero incrementare la presenza. Lavazza, ad esempio, ha annunciato che potrebbe accelerare il processo che la porterebbe a produrre il 100 per cento dei suoi prodotti destinati al mercato americano proprio sul suolo statunitense.

    Secondo i dati del Centro studi di Confindustria, aggiornati al 2022, le multinazionali italiane che hanno sedi negli Usa sono 3.194 e danno lavoro a poco più di 156mila persone, di cui 75mila nell’industria e 80mila nei servizi.

    Il Post ne cita alcune: Pirelli (pneumatici), Brembo (freni), Marelli (componenti elettriche, illuminazione, sospensioni), Sogefi (sospensioni), Landi Renzo (impianti Gpl), Brugola OEB (viti).

    Il pastificio Rana nel 2012 ha aperto il primo stabilimento a Chicago ed ora sta per aprirne un terzo. Oggi ha circa mille addetti e nel 2023 ha raggiunto un fatturato di 602 milioni di euro negli Stati Uniti, metà del fatturato mondiale.

    Anche il colosso Leonardo, di cui il maggior azionista è il ministero dell’Economia, nel 2008 ha delocalizzato una parte della produzione negli Usa comprando l’americana Drs Technologies, assumendo circa ottomila persone e raggiungendo un fatturato americano di 3,2 miliardi di euro.

    Fincantieri ha quattro cantieri negli Usa con circa tremila dipendenti

    Se la questione potrebbe essere di non difficile soluzione per chi ha già un piede negli Usa, il passaggio oltreoceano diventerebbe complicato per gli imprenditori “della prima volta”.

    Cristina Scocchia, amministrazione delegato di Illicaffè, ha ricordato che “per realizzare una linea di montaggio occorrono due anni”, aggiungendo che “le recenti politiche migratorie di Trump sono restrittive”, quindi non è facile oggi reperire personale. Inoltre “sembra difficile che molte aziende europee possano trasferirsi senza creare dinamiche inflattive sui salari sul posto”. Conferma Simone Crolla, consigliere delegato della Camera di Commercio americana in Italia, che ha dichiarato alla Stampa: “Ci vogliono anni di lavoro”.

    Di certo, però, c’è un boom di traffico nei siti di programmi specifici governativi per accompagnare gli investimenti negli Usa, come SelectUsa (https://www.trade.gov/selectusa).

    Meno complicato sarebbe spostare parte della produzione in Paesi a cui gli Stati Uniti imporranno dazi inferiori rispetto all’Unione europea, come il Regno Unito o addirittura San Marino, dove però le opportunità sono limitate principalmente per un territorio poco esteso.

    C’è poi la possibilità di acquistare una società americana dello stesso settore per trasferire parte della produzione, come hanno già fatto alcune aziende italiane.

    Il vero nodo, però, sono le decisioni del governo americano, improntate nella totale incertezza. La strategia di Trump è quella di “sparare” annunci roboanti per poi trattare e ottenere sempre qualcosa. Tuttavia le scelte non definitive sono dannose per chi fa impresa e le Borse lo stanno dimostrando.

    Domenico Mamone

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