L’ultima apparizione proprio il giorno di Pasqua. Papa Francesco, nonostante le precarie condizioni di salute, non ha voluto rinunciare alla benedizione Urbi et Orbi, letta con voce affaticata e con scarse energie. E nei giorni scorsi, in una delle sue ultime trasferte, ha voluto visitare i carcerati in un penitenziario romano.
Ennesimi segni di una missione che ha condotto con “sovversiva” semplicità e determinazione. Sin dalla scelta del nome: un omaggio al santo poverello d’Assisi, una delle figure più forti e rivoluzionarie della Chiesa nella preferenza dell’apostolato incontaminato delle radici. O in quell’elementare “buonasera” con cui ha aperto il suo pontificato dodici anni fa, ricordando con umiltà di venire “dalla fine del mondo”. O nella scelta di Casa Santa Marta quale residenza, anziché il “classico” Palazzo apostolico. O nei luoghi emblematici dei primi viaggi, Lampedusa nello stesso 2013, il Molise e la Calabria nel 2014. “Periferie” che ha ricollocato in una posizione centrale. Così come l’Albania, la prima nazione visitata in Europa. O ancora nella designazione di cardinali provenienti da realtà geografiche e sociali “secondarie”.
Tra i tanti atti che hanno sconfessato i “protocolli” ne ricordiamo tre: la trasferta in un’ottica di via del Corso a Roma per acquistare gli occhiali, l’invio del suo elemosiniere Konrad Krajewski per riattaccare la luce staccata per insolvenza al centro sociale occupato “Spin Time” sempre a Roma, in via Santa Croce in Gerusalemme e la visita a casa di Emma Bonino qualche mese fa. Emblematico anche il rapporto con il mondo della comunicazione, dalle conferenze stampa in aereo ai collegamenti in diretta con le trasmissioni televisive.
Tra le immagini più suggestive che restano di questo pontificato sicuramente va annoverata la preghiera sotto la pioggia del 27 marzo 2020 in una piazza san Pietro deserta, per auspicare la fine della pandemia da coronavirus. Un’immagine silente ma “parlante”, che vale tante riflessioni.
Non va dimenticato che Papa Francesco è salito sulla soglia di Pietro sostituendo il Papa emerito Benedetto XVI, che ha visitato a Castel Gandolfo appena dieci giorno dopo l’elezione. Un incontro storico tra due Pontefici, mai avvenuto prima. Un confronto tra due atteggiamenti e tra due visioni differenti della Chiesa.
Francesco è stato soprattutto un Papa scomodo per i potenti e non sempre compreso nel suo essere controcorrente rispetto a quella omologazione nella “fede nei consumi e negli algoritmi” che sta fagocitando un mondo in balia della crescente secolarizzazione. O, non meno peggiore, della radicalizzazione.
Il gesuita argentino, l’autore dell’enciclica Fratelli tutti di cinque anni fa, è stato il punto di riferimento soprattutto degli ultimi, degli emarginati, dei poveri, dei migranti (suggestive le due visite a Lesbo, l’isola greca dove è attivo uno dei campi profughi più grandi d’Europa), dei carcerati, degli ammalati, degli oppressi, delle vittime degli abusi e delle guerre. Di un’umanità quantitativamente maggioritaria, ma qualitativamente troppo spesso collocata nell’emarginazione.
Il Pontefice ha più volte denunciato i paradossi di società dove l’opulenza di pochi condanna miliardi di persone all’indigenza (“l’economia che uccide”), dove l’irrazionale sfruttamento della natura (“del creato”) sarà un alto prezzo da pagare per le nuove generazioni (il testo di riferimento è l’enciclica Laudato sì, un atto storico è il Sinodo per l’Amazzonia), dove le guerre (“la terza guerra mondiale a pezzi”) rinnovano la disumanizzazione delle nostre esistenze prede dell’indifferenza, programma anticipato nell’esortazione Evangelii gaudium, promulgata nel novembre del 2013.
A piangere questo Papa c’è una comunità trasversale. Include, per la prima volta, anche ambienti prima estranei o polemici verso la Chiesa, comprese aree della sinistra più estrema che hanno apprezzato le sue battaglie a tutela del bene comune, dell’ecologia della vita, della giustizia sociale, della dignità degli omosessuali, del pacifismo e, voce isolata tra i grandi, contro le armi nucleari in una fase di riarmo generalizzato.
Bene ha scritto il presidente Mattarella: “Il suo insegnamento ha richiamato al messaggio evangelico, alla solidarietà tra gli uomini, al dovere di vicinanza ai più deboli, alla cooperazione internazionale, alla pace nell’umanita. La riconoscenza nei suoi confronti va tradotta con la responsabilità di adoperarsi, come lui ha costantemente fatto, per questi obiettivi”.
Domenico Mamone